Danilo Bianchi
Milo Cleis scultore, (a cura di Danilo Bianchi e Franca Cleis), Casa Pessina Comune di Ligornetto, 2003, pag. 11-16, catalogo
Per parlare dello scultore Milo Cleis e tentare di esprimere qualche considerazione a proposito della selezione di opere esposte a Casa Pessina di Ligornetto, e da lui eseguite fra il 1957 e il 2001, si potrebbe iniziare da un aspetto quasi sentimentale: dalla sua passione, che non si è mai attenuata, per la scultura antica, per quella greca in particolare.
Aveva avuto modo di scoprirla curiosando fra gli scaffali della libreria paterna, dove non mancavano i testi fondamentali, per lo più in tedesco, che hanno ben presto permesso al Futuro scultore 1 di conoscere meglio le origini dell’arte e della cultura occidentali e di seguirne l’evoluzione attraverso l’opera critica di importanti studiosi e le riproduzioni fotografiche che l’accompagnavano.
Date queste premesse, si potrebbe anche subito affermare che Milo Cleis
fosse predestinato a fare lo scultore, correndo magari il rischio di avvalorare
una di quelle esagerazioni di comodo cui si ricorre spesso, quando ci si appresta a valutare retrospettivamente la produzione di un artista che, come in questo caso, si articola su un arco di tempo di più di quarant’anni.
Se però si viene a sapere che da bambino la sua bravura nel disegnare non era passata inosservata; se si riesce ad immaginarlo immerso in un ambiente familiare2 ricco di stimoli già molto specifici e mirati, che andavano dalle nozioni riguardanti le norme iconografiche all’uso del pantografo; e se non si sottovalutano le tracce che possono aver lasciato le affinità culturali degli artisti frequentati da suo padre in un adolescente non più tanto inquieto; allora diventa più plausibile ipotizzare che Milo Cleis sia diventato scultore prima che fosse pienamente consapevole di esserlo.
Tutto questo, per paradossale che possa sembrare, non gli ha sempre facilitato il compito di una presa di coscienza delle proprie preferenze artistiche o delle predilezioni stilistiche, maturate di pari passo con la consapevolezza di avere professionalmente un preciso ruolo da svolgere; una consapevolezza, quest’ultima, che non è sempre stata sorretta da una lucida valutazione delle potenzialità del proprio contributo originale e innovatore.
L’ambiente familiare e la formazione, che avviene dapprima nella Svizzera tedesca, potrebbero almeno spiegare perché Milo Cleis partecipa per la prima volta, nel 1957, a due mostre collettive, che si svolgono nella Svizzera orientale: la prima fra giovani artisti ticinesi, la seconda fra pittori e scultori della regione di Basilea. Ma poi c’è subito l’irresistibile attrazione per l’espressione artistica della classicità antica, mediterranea, forse un inconsapevole residuo di quel romantico Drang nach Süden che lo porta a rintracciare nei loro luoghi, oppure attraverso le copie romane di originali greci, i capolavori che hanno segnato le origini storiche della scultura occidentale e della forma plastica in particolare; aiutandolo a capire, senza trascurare le tappe successive di rinascimento, barocco e neoclassicismo, gli esiti della classicità moderna e della contemporaneità con la quale si confrontava e si misurava quotidianamente nel suo primo atelier, a due passi da Casa Pessina. Quindi: un primo soggiorno di studio a Roma nel 1958-59, viaggi di formazione in Grecia, visite e partecipazione a esposizioni a Firenze, contatti sempre più frequenti con Milano, dove si trovava qualche amico prezioso che si stava formando all’Accademia di Brera.
E se in questo modo di fare un’attenta ricognizione dell’arte del passato si potrebbe intravedere, da un lato, una sistematicità di ascendenza ancora nordica; dall’altro, non va dimenticato che esso è stato parte integrante dell’itinerario formativo di grandi artisti, come Brancusi, Arp, Marino Marini, i quali si sono impegnati a ripercorrere criticamente il cammino storico della scultura. Nel processo creativo di Milo Cleis ci sono comunque poche tracce di sistematicità, giacché predomina la reazione immediata e istintiva agli stimoli provenienti da un’idea, da un’immagine della realtà, da un materiale particolarmente adatto, dal bando di un concorso o dalle richieste della committenza. Una spontaneità che si ritrova allo stato quasi puro nei bozzetti in terra cotta, dove l’esito scultoreo sembra il semplice prodotto di un impulso creativo applicato a un materiale duttile attraverso l’abilità della modellazione: esemplari, a questo proposito, ma anche nel senso di riuscire a figurare masse corporee attraverso una scultura di tipo pittorico, sono le Bagnanti del 2001 – un raffinato omaggio scultoreo di Milo Cleis a un soggetto tanto cézanniano.
Da un punto di vista puramente estetico, risultati simili sarebbero impensabili senza una lunga esperienza maturata grazie a una formazione professionale d’antan, basata su una sapienza artigianale che presupponeva l’acquisizione di tecniche specifiche così come l’approfondita conoscenza dei materiali con cui si decideva di lavorare: la pietra, il legno, il bronzo.
Sicché la scelta di un materiale adatto alla realizzazione di una scultura è dettata dalla competenza creativa del suo esecutore, sia perché un materiale è spesso connotato storicamente o ha una sua tradizione, sia perché esso può suggerire le forme attraverso le quali l’opera viene plasticamente risolta.
L’importanza del materiale per il lavoro di Milo Cleis è già documentata dal fatto che egli abbia “ricreato” uno stesso soggetto con materiali – e quindi anche con tecniche – diversi. Volendone poi elencare alcuni, senza dover per forza iniziare dalle pietre “nobili”, come il marmo o il travertino, bensì dalla pietra di Saltrio – nella quale sono stati scolpiti la prima opera, Pomella, del 1953, e il Gatto, del 1957, esposto a Casa Pessina -; ci si accorgerebbe subito che l’elenco non può obbedire a un ordine solo cronologico, giacché utilizzando la pietra di Saltrio (e grazie al diploma federale di scalpellino conseguito durante la formazione lucernese) Milo Cleis si è, di fatto, riallacciato, conferendole un’originale continuità, alla ricca tradizione artigianale della regione a cavallo del confine italo-svizzero, dalla quale erano emerse anche personalità artistiche di primo piano, come il ligornettese Vincenzo Vela, al quale Milo Cleis si sente legato, per lo meno biograficamente, dalla linea di parentela materna.
Continuando nell’elenco dei materiali, non si può fare a meno di inserirvi il gesso. Al gesso Milo Cleis ha indissolubilmente associato, nobilitandolo e togliendogli il senso del provvisorio, il suo esercizio costante del ritratto, rifacendosi, soprattutto all’inizio – con il Curzio del 1956 -, a modelli antichi così co- 13 me a maestri della modernità – si pensi in particolare a Marino Marini. Egli ha in seguito sviluppato una propria ostinazione figurativa che l’ha portato a ricercare in ogni ritratto la sintesi dei lineamenti e delle espressioni che un vol- to denota o può assumere in momenti diversi – questo vale in particolare per la serie di ritratti che vanno da Franca, del 1968, a L’ingegnere, del 1992 -; e ha raccolto addirittura qualche sfida, lanciatagli dalla committenza, che gli chiedeva di dimostrare la sua abilità di ritrattista modellando l’intera figura di una persona – come nel caso di Olivia, del 1999.
Al di là degli aspetti tecnici non si riuscirebbe tuttavia a capire la vasta produzione o la Galleria di ritratti di Milo Cleis senza il suo “profondo interesse per la figura umana” (Si veda il testo già citato di Bruno Soldini, il prezioso amico al quale lo scultore ha dedicato uno dei suoi primi ritratti). Non stupisce quindi che attorno alla figura umana ruotino due dei principali temi, ai quali si potrebbe ricondurre una buona parte della sua produzione artistica: il volto e la figura nuda. Da questi temi deriva- no infatti molti soggetti che si sono moltiplicati attraverso i vari processi di stilizzazione e di astrazione.
Ma tornando all’elenco dei materiali utilizzati, alla pietra e al gesso vanno aggiunti il bronzo e il legno. La tecnica della fusione, acquisita dopo la formazione alla Kunstgewerbe-schule, ha ampliato notevolmente le possibilità per Milo Cleis di misurarsi con la produzione artistica moderna e contemporanea, stimolato in questo anche dai capolavori di grandi maestri svizzeri, italiani e inglesi (fra cui H. Moore) che vedeva sfilare in fonderia.
Sin dall’inizio però l’abilità tecnica e la curiosità estetica hanno fatto convivere all’interno della sua produzione forme plastiche e materiali molto diversi.
Quanto ai soggetti, è interessante constatare come prevalgano, fra le opere degli esordi, quelli legati al mondo animale. Alcuni di essi gli hanno sicuramente permesso di confrontarsi con le abbondanti rotondità con cui si esprimeva il vitalismo plastico del vicino di casa Max Weiss – Gallina, 1957, e Bankiwa, 1958 -; oppure di sperimentare la morfologia più geometrica e la rugosità delle superfici di M. Marini – Stallone, 1962.
Il confronto con i contemporanei non avveniva solo a colpi di fusioni. A Zugo, il giovane Milo Cleis aveva visto all’opera un certo Wotruba; e forse proprio da quelle scomposizioni analitiche – che si possono in parte osservare nel Minotauro del 1957 – aveva capito che una scultura ha anche la possibilità di espandersi e di farsi spazio, quasi come un’architettura. Una possibilità che Milo Cleis ha saputo sapientemente sfruttare per la realizzazione di fontane o di opere monumentali, instaurando nel contempo un rapporto pratico con il sito o l’ambiente in cui andavano inserite, lasciando cioè che fosse il contesto o il paesaggio a determinare in buona parte il soggetto scultoreo; oppure – come nel caso del concorso per una scultura decorativa presso l’UBS di Chiasso – intervenendo con la scultura sulle linee strutturali dello spazio destinato ad accoglierla, contribuendo così alla sua organizzazione 4.
Per meglio precisare e completare le considerazioni che rientrano in questo ordine di idee appena abbozzate, bisognerebbe estenderle almeno a una parte delle opere – e non sono poche – di significato e di uso liturgico, che rappresentano una sorta di produzione artistica parallela, iniziata già nel 1964 con i primi crocefissi, altari e tabernacoli; una produzione che, per qualità e continuità aveva sorpreso positivamente la critica, in occasione della mostra che Milo Cleis ha tenuto al Convento del Bigorio nel 2000, in compagnia dello scultore Pierino Selmoni.
È difficile stabilire quale dei materiali finora elencati si sia rivelato più confacente all’indole creativa di Milo Cleis. La competenza e la sensibilità con cui egli ha saputo, e sa tuttora, scolpire il legno, dimostrerebbero che esso ha avuto nel suo lavoro un significato che va ben al di là delle implicazioni tecniche.
Affettivamente il legno garantisce una continuità con le profonde conoscenze e la straordinaria attività di silografo del padre. Da un punto di vista esistenziale colpisce inoltre, chiunque abbia visitato l’atelier e il giardino dello scultore (magari in una stagione in cui i confini fra l’uno e l’altro si confondono), l’invidiabile sintonia di Milo Cleis con la natura, in generale, e, in particolare, la sua grande ammirazione per i fenomeni del mondo vegetale, da dove il legno proviene, contenendo in sé e suggerendo quei principi vitali che gli hanno per- messo di farsi e di crescere organicamente.
Da queste premesse è fin troppo facile derivare delle analogie con certe estetiche “biomorfiche” – come le definì il critico e storico dell’arte C. G. Argan – e con l’importanza che ha avuto nell’opera di due protagonisti della scultura moderna, come Arp e Moore, la ricerca e la rappresentazione delle forme organiche.
Milo Cleis si accosta con circospezione a questi modelli di scultura organica, realizza opere che esprimono l’idea del nascere, del crescere e di invadere lo spazio, attraverso una convincente astrazione organica – come Ermes, L’inizio, Oroya, tutte del 1967. Ma nel contempo se ne discosta mettendo la linea curva e ondulata al servizio di una rappresentazione del mondo organico 15 che oscilla costantemente fra l’animale o l’anatomico e il vegetale – come nel grande Drago del Centro scolastico di Langenbruck, 1964; nella Sheila del 1968; nell’Albero del 1970, che è in realtà una figura nuda.
E quando Milo Cleis fa qualche ulteriore concessione ad un edonismo plastico, tutto tattile, il legno si identifica con la forma, diventa fra le mani dello scultore forma pura, come se significasse solo sé stesso – ad esempio nel Diospiro del 1978, dove il nome dell’albero designa materiale e forma di una “scultura da toccare”.
Milo Cleis non sarebbe infatti uno scultore tutto d’un pezzo se, a prescindere dall’accurata scelta dei materiali, non avesse sviluppato una propria ricerca delle “forme pure” o delle “forme assolute”, dimostrando di possedere, accanto alle competenze tecniche, anche la capacità di riflettere, scolpendo e modellando, sulle possibilità e sui limiti della forma plastica. E lo ha fatto quasi subito, quando la sua produzione giovanile era ancora affollata da animali, da uccelli in particolare, partendo quindi dal tema, attraverso il quale Brancusi aveva rinnovato la struttura della forma plastica.
Nelle sue stilizzazioni e astrazioni – Colomba, del 1960, Falco, in bronzo lucidato quello del 1962 e in bardiglio delle Alpi Apuane quello del 1983 – Milo Cleis ha voluto però far convivere elementi dei due principali linguaggi, basati sulla linea ondulata e su quella diritta, ottenendo plasticamente un suggestivo alternarsi di superfici curve e piane.
Questa voglia di estrema sintesi formale, rispunta anche più tardi in un’opera non più di piccole dimensioni – come la Juno, del 1989/90, posta per l’occasione all’ingresso di Casa Pessina -, dove nell'”umile” pietra di Saltrio i lineamenti del tema tradizionale della figura nuda rimangono in bilico fra l’uomo e la donna, pur di permettere alle opposte morfologie di fondersi plasticamente in una torsione ricavata dal pilastro di una cancellata.
Non dovrebbe dispiacere a Milo Cleis se le considerazioni conclusive, riguardanti la selezione di opere esposte, si soffermano brevemente su due sculture che, più di altre, affermano con convinzione il primato della corporeità: si tratta del Torso maschile del 1969 e del Crocefisso del Santuario della Madonna del Sasso, del 1985, di cui si espone il gesso a Casa Pessina. È una corporeità che si coglie nelle forme naturali ben proporzionate e ben definite anatomicamente, attraverso le quali Milo Cleis ha saputo ritrarre la concretezza della vita e della morte dell’uomo, conferendole valori plastici di intenso significato morale e lasciando in fondo trapelare, malgrado l’aggiornamento del linguaggio utilizzato, un’affettuosa nostalgia per quella figurazione “universale- umana” – l’Allgemein-Menschliches – che, se da un lato rinvia un po’ letteraria- mente ad un’anacronistica grecofilìa winkelmanniana, dall’altro rivela un autentico e non sempre dichiarato bisogno, da parte dello scultore-creatore, di serenità contemplativa – forse un bisogno d’altri tempi e forse ancora ispirato dall’incrollabile mito della serenità morale dell’arte greca, così a lungo inseguita dal classicismo e dal romanticismo tedeschi.
5. Per la definizione di “biomorfismo” e per altre stimolanti riflessioni sulla storia della scultura moderna, si veda in particolare il Capitolo sesto: L’epoca del funzionalismo, in G. C. Argan, L’arte moderna 1770/ 1970,Sansoni,Firenze1970.