Milo Cleis e la sua galleria di ritratti

Bruno Sodini, regista

(Presentazione alla mostra presso il Municipio di Bioggio, 26 aprile 2002)

Milo Cleis scultore, (a cura di Danilo Bianchi e Franca Cleis), Casa Pessina Comune di Ligornetto, 2003, pag. 45-48, catalogo

È con grande piacere, e con altrettanto imbarazzo per la mia scarsa attitudine all’oratoria ufficiale, che vi do il benvenuto a questa mostra di Milo Cleis, scultore disegnatore e “artista a tutto tondo”, se posso usare un’espressione propria al mondo della scultura, per definire un modo di vivere il suo mestiere come parte integrante di una visione più ampia dell’esistenza.

Credo che Milo Cleis abbia chiesto a me di presentare questa sua mostra molto particolare, intitolata: “Galleria di ritratti”, per evitare discorsi troppo lunghi e soprattutto parole troppo sofisticate.

Ma credo che lo abbia fatto in primo luogo perché sono un frequentatore regolare del suo atelier di Ligornetto, dunque un testimone del suo impegno creativo, da almeno quarant’anni: dal 1960, se ben ricordo, quando io ero ancora studente a Brera e lui, con appena qualche anno in più, mi dava già l’impressione di uno scultore fatto, di un navigato maestro d’arte oltre che di vita.

Aveva già alle spalle gli studi alla Kunstgewerbeschule di Lucerna e si era 45 perfezionato a Ginevra. Quando lo incontrai la prima volta era appena tornato entusiasta da Roma, dove aveva passato un anno memorabile, con viaggi di studio e di piacere verso la Sicilia: viaggi che ancora oggi gli risvegliano emozioni e atmosfere mediterranee, visioni di Magna Grecia, di templi e colonne diroccate…

Segesta, Selinunte… reperti archeologici e statue mutilate, ma anche capperi, olio d’oliva e melanzane, pasta e ceci…

Una passione per l’arte, la cucina e il paesaggio Mediterraneo che Milo Cleis coltiva ancora oggi, vissuta un po’ con lo spirito degli artisti romantici che affrontavano il “grand tour” verso Sud, verso la classicità, come un indispensabile viaggio d’iniziazione e d’ispirazione…

D’altra parte Milo è figlio d’arte e già suo padre Ugo Cleis, pittore, silografo e mosaicista tra i più importanti della sua generazione, aveva fatto il suo viaggio verso Sud, venendo da Basilea Campagna a stabilirsi nel Mendrisiotto. Al figlio aveva cercato di trasmettere la passione, ma anche la meticolosità e il rigore (un po’ nordico) nel lavoro. Aveva l’abitudine, quand’era ancora un bambino, di portarlo in giro per prati e boschi alla ricerca di paesaggi da dipingere, e accanto al suo cavalletto piazzava un cavallettino che aveva costruito apposta per il piccolo Milo. A volte andavano insieme nelle cave a cercar pietruzze colorate per i mosaici.
Se a questo aggiungiamo che la madre Lisa discendeva dalla famiglia Vela, la stessa di Vincenzo Vela, scultore di grandissima fama, vediamo che Milo Cleis sarebbe difficilmente sfuggito al suo destino di artista.

Mi piace soffermarmi su questi antefatti, perché penso che sia impossibile apprezzare veramente un’opera qualsiasi, senza conoscere certi dettagli sulla vita del suo autore.

Qualcuna delle opere qui esposte, se ben ricordo, era già presente verso il 1960 nel suo primo studio, che era in realtà una baracca in mattoni di cemento, posta in mezzo a un prato, con la classica vetrata-lucernario di ferro arrugginito.

Credo che sia stato modellato lì anche un mio ritratto, qui esposto, che trasmette in modo magistrale, tutta la mia sprovvedutezza, la finta e antipatica supponenza adolescenziale di un momento in cui brancolavo alla ricerca di quel famoso “qualche cosa” che sto cercando ancora oggi e non si trova mai….

Ben presto il primo studiolo si rivelò troppo piccolo e troppo freddo, esclusa l’estate quando era impossibile starci per il troppo caldo. D’inverno comunque era peggio perché non si resisteva a lavorare da mattina a sera con scalpello e martello, o con le mani immerse nell’argilla o nel gesso ancora liquido, perciò Milo, vendute le prime statue, se ne fece costruire uno nuovo.

Lo studio attuale dello scultore Milo Cleis, a Ligornetto, è sempre stato un luogo indefinibile: il suo spazio sghembo è insieme atelier, biblioteca, serra esotica, ripostiglio e luogo di meditazione.

Nei ripiani più alti, quelli solitamente previsti per la stagionatura, riposa da anni una schiera di teste bianche, impreziosite dalla patina del tempo. Più in basso, tra una pianta verde e l’altra, semicoperte dalle foglie di ficus, appaiono figure intere di modelle nude, dall’anatomia levigata, che invitano l’osservatore a saggiarle anche con il tatto. Ma altre teste più scure, altri busti in legno o in gesso patinato color bronzo, guardano da ogni angolo dello studio.

È una immobile popolazione stanziale, cresciuta nel corso degli anni, composta di ritratti di amici e famigliari, di modelle e di estimatori che frequentano, o frequentavano, lo studio di Milo Cleis.

Alcuni sono frutto di pazienti sedute in posa, altri sono modellati di getto, a memoria. Tutti nascono però da un profondo interesse per la figura umana, che non ha mai abbandonato lo scultore, anche quando il suo percorso lo portava, e lo porta tuttora, ad esplorare territori plastici lontani dai riferimenti con la realtà che abbiamo sotto gli occhi.

Così, accanto a preziose ed elaborate sintesi formali, troviamo i tratti improvvisi di vere e proprie istantanee che fermano una postura emblematica del soggetto e ne rivelano i contenuti: l’inclinazione meditabonda del poeta, la rilassata assenza del saggio, gli occhiali del famoso architetto puntati come telescopi verso il successo, il salutista impettito: quasi un asceta, il benefattore fiero del suo gesto, la donna con lo sguardo agrodolce, la sofferenza del padre malato, la modella che si compiace del proprio corpo…

Una produzione varia dunque, che si è stratificata nel tempo, occupando l’artista negl’intervalli tra i lavori monumentali, le lezioni di scultura e la passione per la botanica: si perché Milo Cleis scolpisce anche le piante del suo giardino.
Sono “studi sulla varietà umana”, oltre che ricerche plastiche ed esperienze estetiche, fatte quasi in segreto: le sue opere conosciute sono i grandi altari e le sculture civili in pietra, bronzo, legno, sparsi nella Svizzera Italiana e anche nel resto del paese.
È per questo, perché realizzati sulla spinta di impulsi indefiniti ma urgenti, che i ritratti, nati forse per non uscire mai dal suo studio, ci rivelano un aspetto sommesso e autentico della personalità dell’artista.
I ritratti invece sono eccezionalmente usciti dallo studio e li possiamo osservare ed apprezzare qui, questa sera.

Mi sembra però necessario accennare almeno al resto della sua produzione. Se pensiamo alle opere eseguite dallo scultore e catalogate, opere spesso di grandi dimensioni, ci rendiamo conto che la “Galleria di ritratti” che abbia- mo sotto gli occhi è davvero una specie di diario intimo, una storia parallela a tre dimensioni, che percorre questi decenni accanto alla produzione “maggiore”, intendendo con ciò maggiore per dimensioni e notorietà. Sono opere che molto più di quelle qui esposte tendono verso varie forme di astrazione e la raggiungono in molti casi con risultati davvero originali. Varrebbe la pena di fare una volta un giro tra il culturale e il turistico, per visitare le più rappresentative.
Una parte importante è costituita da opere di arte sacra: più di sessanta tra altari, amboni e preziosi tabernacoli, eseguiti in molti materiali diversi, e poi ci sono i concorsi vinti ed eseguiti nelle piazze, sugli edifici pubblici e privati, o dentro le abitazioni: fontane, sculture in pietra, in legno, in bronzo…
Una lunga esperienza che, tra l’altro, lo ha portato a insegnare “teoria del- le forme plastiche, modellato e figura” agli studenti del Centro Scolastico Industrie Artistiche (CSIA) prima, e della Scuola Superiore Professionale (SUPSI) a Lugano, poi.

 

Ho girato qualche anno fa un documentario sul Centro per le industrie artistiche, e mi ha colpito il clima di fervore che animava la sua aula-laboratorio. Un ambiente di libertà e di sperimentazione che metteva le ali alla voglia di fare dei suoi allievi, e che gli permetteva nel contempo di mandare avanti le sue ricerche personali, di confrontarle con quelle delle generazioni più giovani. Se non sbaglio alcuni dei disegni appesi a queste pareti sono stati eseguiti proprio in quell’aula.

Credo che Milo Cleis sia uno di quei professori, o “maestri”, abbastanza rari, che gli allievi ricordano volentieri.
E per concludere vorrei ricordare che da molti anni, quando punge urgenza di convivialità, ci troviamo a cena in un gruppetto di cinque o sei amici, compreso lo scultore, per discutere di arte, di etica e di estetica, ma anche dei Massimi Sistemi dell’Universo, giungendo a volte a sfiorare i misteri dell’Inconoscibile.
In quanto all’arte ho tirato alcune conclusioni provvisorie.

L’arte può essere tante cose, e io la vedo così: può essere un grande gioco intellettuale inventato dall’uomo che riesce, a volte, a creare emozioni, un modo di comunicare, ma anche di discriminare: chi non è stato iniziato non partecipa al banchetto!
Le opere non vivono solo di luce propria: vivono di quella passione che ognuno di noi vi rovescia dentro. E allora chi è l’artista?

L’artista è colui che ha deciso di esserlo con una forza tale da convincere se stesso e gli altri, colui che ha la personalità per proporre dei modelli, il resto tocca a chi osserva e condivide l’esperienza estetica e il gioco.
La mostra, le opere, sono catalizzatori che innescano reazioni a catena di discussioni, di condivisioni ma anche di polemiche e di avversioni che ravvivano il vivere sociale.