Arte e liturgia: l’opera di Milo Cleis una testimonianza contemporanea

Azzolino Chiappini, professore ordinario e Pro-Rettore alla Facoltà di Teologia di Lugano

Milo Cleis. Opere di arte sacra e liturgica, (a cura di Franca Cleis), Facoltà di Teologia di Lugano, 2006, pag. 11-14, catalogo

Ci si dovrebbe stupire, o almeno interrogare, davanti al fatto della presenza di immagini e di oggetti “sacri” nella tradizione ebraica e cristiana. Nelle Scritture dell’Antico Testamento leggiamo molte prescrizioni relative al tempio, al culto, agli oggetti necessari per questo; però è previsto poco o nessun posto per le immagini. Se passiamo al Nuovo Testamento, dobbiamo osservare che, da un certo punto di vista, preghiera e culto sembrano totalmente slegati da oggetti e segni tradizionalmente dedicati all’esercizio del culto. Le indicazioni che possiamo leggere suggeriscono che tali oggetti e arredi culturali sono, se non esclusi, almeno ignorati.
Tuttavia dobbiamo anche costatare un fatto impressionante, che sembra indicare un atteggiamento opposto: la storia dell’arte occidentale, per quasi mille anni, ha prodotto opere e capolavori espressi dalla fede cristiana o legati alla fede e al culto. Il fenomeno è così grosso che cancellare queste opere sarebbe come cancellare uno dei capitoli più importanti non soltanto della cultura, ma della storia dell’umanità.

Per quanto riguarda il cristianesimo, è però necessario ricordare e riflettere sulle origini, per ricordare un dato che stupisce. Nel suo inizio storico, nel suo formarsi, il culto cristiano si differenzia da tutto quello che esisteva nel mondo antico. Nessun tempio, nessun sacrificio. Una liturgia fatta soltanto di parole, di canti, e di alcuni gesti, di simboli ricchi, molto vicini alla realtà quotidiana (il pasto, l’uso dell’acqua per quello che sarà chiamato battesimo). Alcune di queste forme rituali esistevano anche nel mondo ebraico, in ambienti e comunità del primo secolo: così delle abluzioni e dei bagni, così un pasto con carattere religioso (soprattutto presso gli esseri, o in quel mondo testimoniato dalla biblioteca di Qumran scoperta e ritrovata attorno alla metà del secolo scorso).

Nell’insegnamento del Nuovo Testamento appare mutata soprattutto l’idea del rapporto tra l’uomo e Dio. Su questo tema, non si possono mai dimenticare le parole di Gesù alla donna di Samaria che si leggono nel vangelo di Giovanni. La donna espone la domanda, che veniva dalle dispute tra i samaritani e gli altri ebrei. Dove adorare, cioè dove celebrare il culto, dove offrire i sacrifici, che avevano posto e significato importante nella vita religiosa: a Gerusalemme, o sul Garizim, la montagna della Samaria? Credimi donna – risponde Gesù – è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre… È giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità (Gv 4, 21-24). Nella parola di Gesù, c’è una forte affermazione, che in parte si trovava già nella predicazione profetica dell’Antico Testamento: Dio è spirito, ed è Padre. In qualsiasi luogo, in qualsiasi momento l’uomo può adorarlo, può mettersi in relazione con lui. Tempi e luoghi non sono più determinanti.

Delle parole di Gesù non si può dedurre un rifiuto assoluto dei segni legati al culto, o la negazione di uno spazio che può essere considerato santo: infatti anche Gesù si reca a più riprese al tempio di Gerusalemme. Quello che le sue parole alla donna di Samaria esprimono è la necessità di un atteggiamento interiore in spirito e verità.
Soltanto con questo, prima di ogni rito e alla base di ogni forma di culto, l’uomo può adorare e può incontrare Dio.

A proposito di culto, Paolo è radicale. Da una parte, egli afferma che il vero culto, quello nuovo legato alla novità cristiana, è l’offerta di tutta la persona, di tutta la vita (è quello che chiama spirituale, cioè autentico, vero, Rm 12, 11); dall’altra, addirittura Paolo sembra negare ogni valore ai tempi e ai momenti sacri: tutto deve essere relativizzato, perché rimanga soltanto la croce di Cristo e la salvezza che viene da lui. Scrivendo alla comunità dei Galati, Paolo li rimprovera del loro ritornare alle tradizioni ebraiche cultuali, e scrive: Ora invece che avete conosciuto Dio, anzi da lui siete stati conosciuti, come potete rivolgervi di nuovo a quei deboli e miserabili elementi, ai quali di nuovo come un tempo volete servire? Voi infatti osservate giorni, stagioni e anni! (Gal 4, 9-10). E in un’altra lettera, quella ai Colossesi, si legge: Nessuno dunque vi condanni più in fatto di cibo o di bevanda, o riguardo a feste, a noviluni e a sabati: tutte cose queste che sono ombra delle future; ma la realtà invece è Cristo (2, 16-17).

Si deve dunque affermare che il Nuovo Testamento e l’esperienza della comunità cristiana delle origini manifestano un atteggiamento nuovo, diverso rispetto al mondo religioso circostante, sia pagano, sia giudaico (anche se pensieri, temi, formule del culto hanno spesso le radici nella tradizione ebraica di Gesù e dei discepoli). L’idea di “tempo e spazio sacri” è ormai molto diversa.

All’inizio della storia cristiana troviamo soltanto un giorno santo, il giorno del Signore, dies dominica, caratterizzato soprattutto dalla celebrazione che ricorda la Cena di Gesù; e un rito di ammissione nella comunità, il battesimo.
Proprio qui, però, vediamo anche i semi di uno sviluppo, di un sistema di simboli e riti, che diventerà la liturgia cristiana.

Questo avviene perché la rivelazione, anche se rinnova profondamente le idee relative al rapporto tra l’uomo e Dio, non sopprime alcuni dati antropologici fondamentali.

Tra questi c’è proprio il bisogno di esprimere le realtà e le esperienze più profonde con un linguaggio simbolico, che si presenta come il solo adeguato. Si tratta di un linguaggio che si serve di elementi fondamentali della vita, come il pane, il vino, l’acqua, e di gesti che dicono quello che le parole non dicono, o non esprimono sufficientemente.

La novità del culto cristiano, così marcata nel Nuovo Testamento, rimane anche, e non poteva essere diversamente, incarnata nell’esperienza umana.
Inizia una storia, che qui non è neppure possibile riassumere, che diventerà anche uno dei grandi capitoli della storia dell’arte dell’umanità (poesia, arti figurative, musica).

In questa breve introduzione alla mostra delle opere dell’artista ticinese Milo Cleis, dobbiamo limitarci ad alcuni accenni al tema dell’altare.

All’inizio, nell’età apostolica, e anche oltre (II secolo), esso era senza dubbio una mensa, il tavolo di un pasto religioso in cui si faceva memoria della morte e della risurrezione del Signore, in obbedienza al suo comando, e dove si mangiava il pane e si beveva il vino, il suo corpo e il suo sangue (1Co 11, 17-34).

Abbastanza presto, però, il tavolo, o mensa, assume anche un altro significato, prendendo, in questo momento, elementi dall’esperienza religiosa giudaica e più universale. Rimanendo la tavola di un pasto santo, la Cena di Gesù, comincia ad essere inteso anche come altare in senso stretto, ara, cioè luogo dell’offerta, di un sacrificio, che, in questo caso è quello della croce, celebrato come memoria.

Nella storia dell’evoluzione della comprensione dell’altare cristiano e della sua realizzazione rimangono aperti ancora diversi problemi: per esempio quello del suo orientamento (verso oriente; con la questione della posizione del celebrante verso il popolo, ecc.) Si tratta di questioni storiche non ancora completamente chiarite, che, dopo il concilio Vaticano II, e anche in conseguenza della riforma che è seguita, sono spesso state presentate in contesti polemici. Qui possiamo soltanto sottolineare un dato sicuro: nei secoli, forma e collocazione dell’altare nello spazio dell’edificio e in rapporto all’assemblea hanno sempre riflesso l’esperienza della fede della comunità celebrante e la teologia dell’eucaristia elaborata in un determinato momento storico.

Si è già accennato all’altare mensa, all’altare ara. In epoche più recenti, dopo il concilio di Trento, che coincide anche con la nascita e il trionfo del barocco, l’altare è pensato e costruito nell’orizzonte di una teologia che sottolinea soprattutto l’aspetto sacrificale dell’eucaristia,
e il tema della “presenza reale”, con l’ostia consacrata da esporre solennemente, alla vista di tutti, fuori della celebrazione (adorazioni, benedizioni con il Santissimo, ecc.).

Con il movimento liturgico del secolo scorso, e con la riforma liturgica seguita al concilio Vaticano II, esperienza della fede e teologica riscoprono la dimensione dell’eucaristia come pasto a cui Dio convoca la comunità, invitata anche, nello stesso momento, a celebrare la
memoria viva della morte e della risurrezione del Signore. Questa comprensione è poi collegata a uno dei principi fondamentali della riforma, quello della partecipazione attiva di tutta la comunità. Da qui deriva la conseguenza importante: si pensano e si realizzano altari che permettano la celebrazione con il celebrante rivolto verso la comunità, che sta davanti e che, almeno idealmente, circonda l’altare. Questo significa, praticamente, che l’altare sia staccato da una parete, cioè dall’abside, e che sia possibile muoversi attorno ad esso nelle varie fasi della celebrazione. Infine, bisogna ricordare il dato simbolico, che è molto importante, manifestato dalla liturgia medesima, secondo il quale l’altare, mensa e ara, è, nel suo significato più profondo, simbolo di Cristo, il Signore crocifisso e risorto.

Siamo così arrivati all’opera di Milo Cleis, testimoniata in questa mostra. Gli anni settanta o ottanta (ma già dalla conclusione del concilio Vaticano II nel 1965) sono stati, in Ticino come altrove, decisivi e fecondi nell’impegno del restauro delle nostre chiese, per adeguarle alla teologia e all’insegnamento del concilio Vaticano II (senza dimenticare la costruzione di nuove chiese, alcune veramente interessanti).

Importante è stato l’impegno (di adeguamento, di ricerca di soluzioni, e anche finanziario) delle comunità parrocchiali, di architetti e di scultori. Grande il merito della commissione diocesana di arte sacra, per la competenza dei suoi presidenti e del suo segretario don Valerio Crivelli. Nell’insieme la qualità è buona, anche se ci sono delle eccezioni, non del tutto convincenti. Alcuni restauri sono addirittura esemplari, straordinari (e in anticipo sui tempi della riforma conciliare): penso a alla chiesa parrocchiale di Brissago, restaurata dall’impegno congiunto del prevosto don Annibale Berla e dell’architetto Luigi Snozzi, con lo splendido (sicuramente uno dei più belli) altare di Genucchi (e, ancora a Brissago, bisogna ricordare il restauro della chiesa della Madonna di Ponte).

Parte dell’attività artistica (quella per la liturgia) di Milo Cleis si pone in questo contesto, con un contributo di notevole interesse e di grande valore artistico. Lo scultore ha saputo entrare nello spirito della liturgia, rinnovata dal concilio Vaticano II, e collaborare in maniera
che risulta forte con gli architetti e i responsabili dei restauri delle chiese per cui ha lavorato. Tita Carloni, nel suo contributo al catalogo, sottolinea chiaramente i meriti artistici di Cleis, che la mostra e le fotografie documentano con forza. Senza entrare in una riflessione di tipo estetico, mi interesa sottolineare alcune caratteristiche fondamentali della sua scultura per la liturgia.

Ho già accennato alla sua totale adesione allo spirito della liturgia rinnovata dal concilio Vaticano II. I suoi altari si collocano mirabilmente nei nuovi spazi creati per la celebrazione liturgica. Le forme scelte, spesso geometriche, rispettano il significato e la funzione dell’altare, mensa e ara, evitando simbolismi complicati, che non parlano immediatamente, e che si sono diffusi negli ultimi anni. L’altare è, l’ho già ricordato a più riprese, tavolo di un banchetto e ara; luogo della memoria della Cena del Signore, come del sacrificio della croce, unico perché pieno e compiuto una volta per tutta la storia umana e delle relazioni tra l’uomo e Dio. L’altare anche ricorda e rimanda a Cristo, nutrimento della Cena e offerta per la salvezza. Tutto questo è così ricco e così pieno che non ha bisogno di altri elementi, simboli o suggerimenti.

In una parola: gli altari di Cleis parlano questa lingua, e mostrano, in una eleganza e bellezza essenziale, quella che è la funzione e il significato dell’altare. Vorrei dire, dando tutto il peso alle parole, che non ci vuole niente di meno e niente di più. O ancora funzionano e dicono l’essenziale e per questo sono molto belli.

La mostra presenta alcune altre opere di Cleis. Ricordo soprattutto le figure del Crocifisso. Di nuovo, si dovrebbe riprendere il discorso relativo alla presenza di immagini nella tradizione cristiana. La storia, soprattutto in alcuni periodi, presenta delle tensioni e addirittura delle lotte in merito alla questione. C’è voluto perfino un concilio, nel primo millennio della chiesa ancora unita, per affermare la liceità dell’immagine per il culto cristiano (concilio di Nicea II, 787).

Dopo quasi venti secoli di fede cristiana, e quasi due millenni di rappresentazioni della figura centrale, quella del Cristo crocifisso, ci si può chiedere, se è ancora possibile, e come, presentare in immagine l’evento e la figura della croce. Un artista del nostro tempo, deve sentirsi sgomento di fronte a questo tema e alla sua storia. Cleis ha saputo affrontarlo e rispondere alla sfida. Ha portato, dentro questa storia, una sua parola essenziale ed efficace, la parola del nostro tempo, tormentato e dubbioso.

Alcuni anni fa, circolava questa espressione, relativa alla modernità, all’arte e in particolare a quella “religiosa”: “morte di Dio, morte dell’arte”. Ne una, né l’altra di queste affermazioni sono vere.

Per quanto riguarda l’arte, in particolare quella al servizio della liturgia e per l’espressione dei temi della fede, e anche se circolano e si vedono cose (non opere) brutte o insignificanti, le creazioni di Milo Cleis ci dicono che si può, anzi si deve essere ottimisti. Ci sono ancora artisti che, come nel passato, ma con espressioni e linguaggi nuovi, contemporanei, sono capaci, con umiltà e generosità, di mettersi al servizio della fede della comunità credente e di creare oggetti per il culto che sono funzionali, ma anche belli.
La mostra e il catalogo sono testimonianze di una situazione, che contrariamente al parere di molti, non solo non è disperata, ma ricca di promesse e di speranza. Per questo: grazie a Milo Cleis, per il suo lavoro, per le sue realizzazioni; egli ci dimostra come l’arte di un artista vero può ancora parlare la lingua della fede.

N.B.: in questo contributo, sono volutamente tralasciate tutte le note.
Per chi fosse interessato a questi temi, indico un solo testo, ricco per le indicazioni teologiche e per la documentazione su opere eseguite in Europa: Aa.Vv. (a cura di Goffredo Boselli) L’altare, mistero di presenza, opera dell’arte. Qiqajon, Magnano 2005.